SCRITTI CRITICI

Cipriano Efisio Oppo, presentazione al premio Parigi, 1951

Il modo di colorire dell’Avenali è in queste cose, più visibile. Nell’affresco (ed Avenali ne ha compiuti due grandi, recentemente) egli non si fida del colore ed ha bisogno di sottoporlo alla guida chiaroscuristica, e fa bene. Qui è più libero, si può dare con più cuore a questa fatica, e in ciò segue, sia pure alla sua maniera, l’esempio dei grandi. Ma, contrariamente a quanto si va facendo in questo campo, egli prende dai grandi artisti che lo hanno preceduto soltanto il modo, non il colorito che, se è sincero, è particolare ad ognuno e insopprimibile: ed in Avenali ciò risulta chiaro e bene. (…) L’Avenali ha già mostrato nel tempo, e non so se abbia ancora voglia di mostrarlo, quello che ha fatto tentando la moda o meglio la maniera. Poi si è accorto che la maniera corre sempre; che per sembrare attuale bisogna essere agile e senza eccessivi pensieri; privo di quel senso umano e superumano ognora più raro, che è proprio del grande artista, di rimanere vivo anche dopo la morte.

Fausto Pirandello, presentazione della mostra alla Galleria Il Vantaggio di Roma, 1956

Occorre proprio che io mi provi a definire questa pittura di Marcello Avenali, proprio io cui non compete se non una affettuosa testimonianza su quel che credo sia l’efficiente partecipazione di Avenali a questo nostro momento dell’arte? A saperlo fare non sarebbe inutile se l’abitudine invalsa di “fare il punto” di ogni manifestazione risponde poi ad una necessità d’intesa sui termini dell’arte; intesa che davvero, allo stato attuale delle cose, non mi sembra mai troppa.
Avenali è in evidente ascesa alla conquista faticata di una posizione di gusto che, a mano a mano, lo conduce alla chiarificazione di ciascuno degli elementi di gravitazione su quel gusto medesimo. Egli combatte quadro per quadro a portare la sua natura di pittore, di colorista (che sarebbe una preziosa natura, una natura arrisa) sul piano di una indifferenza nei riguardi delle ragioni di un discorso obiettivo. Questa indifferenza a me sembra frutto di una combattuta, studiata analisi del proprio volersi in lui di uno schema figurativo che attraverso il gusto risalga ad una più decisa determinazione di quel ch’egli intenda revocare in forma e colore.
Credo insomma ch’egli voglia muoversi per una via di opposizione all’astratto, per allinearsi tuttavia, salvato il salvabile, in un discorso di pura forma. Pazienza se quel che resta salvato da noi tutti di certi “universali”, è poca cosa. Penso che una delle antinomie del nostro tempo sia proprio nella inanità di ogni riporto ad una “costante”, e intanto nel presentimento che non sia inutile non disperarne. E che dunque sia quanto meno generoso profferirsi ai disagi di un simile dibattito. E’ per questo, e per i risultati di questo senso da lui ottenuti, che io faccio gran conto della pittura di Avenali: come quella di un pittore avvertito, dotato e “felice”.

Giovanni Michelucci, in L’autostrada del Sole, 1963

(…) A me sembra che, nella chiesa dell’Autostrada a Firenze, Avenali abbia indicato una nuova possibilità dell’inserimento nell’architettura di un tipo di vetrata che non blocca le aperture illuminanti, ma determina anzi fra l’esterno e l’interno ed attraverso un filtro che può assumere effetti magici (perché realizzato su più  piani complementari) una continuità (…). Entro il tessuto della vetrata della chiesa dell’Autostrada si intravedono il cielo, la campagna e i monti e si stabilisce così un rapporto tra le forme architettoniche e la natura, che il vetro colorato altera parzialmente e gradevolmente. (…) Lo spessore della vetrata a più strati può offrire la possibilità – maggiore che con le vetrate tradizionali – di partecipare dell’architettura, divenire costruzione e non tamponamento. (…) Se le opere d’arte hanno ancora una ragione di entrare nell’architettura (e per una chiesa sono richieste) il solo modo accettabile è – a mio avviso – quello di farle nascere proprio come ha fatto Avenali, a contatto della costruzione, durante la sua esecuzione, insieme agli artigiani, ai muratori e carpentieri e manovali, in modo che essi si rendano conto di quello che stanno facendo e ne capiscano la ragione e le caratteristiche (…).

Cesare Vivaldi, presentazione della mostra alla galleria Il Carpine, 1967

(…) Avenali usa di volta in volta il microscopio e il cannocchiale, analizza e viceversa sintetizza. Molto schematicamente potrei dire che tutto il suo grande lavoro di “decoratore” è una proiezione su vasta scala di procedimenti di analisi (e di scomposizione) della realtà, mentre quello del pittore è maggiormente sintetico, condotto con un’ottica diversa. Ma per la verità il problema è più vasto e complesso, considerando che i due momenti, analitico e sintetico, sono continuamente presenti, in alternativa l’uno all’altro, anche nell’opera pittorica di Avenali. Il quale, partito dalla figurazione, ha analizzato e scomposto le forme fino a giungere alla non figurazione, ed ora sta compiendo il processo inverso con un nuovo approdo alla figuratività. Solo che, attraverso questo doppio processo, di scomposizione e ricomposizione, il pittore riesce a compiere la sua indagine più acuta e stringente della realtà; la quale è illusoria, gli si sfalda tra le mani come un mazzo di carte da gioco, si aggruma in immagini labili ed effimere, parvenze continuamente revocate in dubbio, senza nulla di certo, flatus vocis (…).

Lorenza Trucchi, in “Momento sera”, 1967

(…) La tecnica della vetrata nella quale Marcello Avenali ha apportato più di una rivoluzionaria innovazione, ha costituito senza dubbio un ponte tra la lunga pratica pittorica dell’artista e questa sua recentissima esperienza plastica. (…) Avenali preferisce chiamare le sue recenti opere in ferro strutture e non possiamo dargli torto, giacchè più che di masse plastiche si tratta appunto di forme composte e strutturate nello spazio secondo un’impostazione architettonica. (…) Sembra quasi che Avenali, in questo suo primo incontro con la scultura, abbia saggiato i vari campi di ricerca dandoci così una specie di riuscito campionario sia della sua versatilità inventiva, sia della sua abilità di sperimentatore tenace e coerente. Ma c’è anche da prevedere che le strutture astratte in vetro e metallo possano aprire in futuro per Avenali un fruttuoso campo d’indagini ben congeniali al suo temperamento sempre equamente diviso tra suggestivo amore per il colore e la luce, al quale è affidato spesso un magico messaggio di spiritualità, e tra una rigorosa indagine formale legata al suo profondo interesse per il disegno (…).

Maurizio Calvesi, presentazione della mostra allo Studio Erre, 1970

Lo sbalzo tra pittura e pittore è, a volte, enorme; la pittura entusiasmerebbe ma l’autore delude, o invece la pittura deluderebbe ma l’uomo affascina (…). In Avenali la corrispondenza tra persona e opera è, invece, assoluta. (…) Emana, lui come il suo quadro o la sua struttura di metallo, serenità, calma, entusiasmo, misurato ma alimentato costantemente da una sana tenacia e da una luminosa, gentile, gioia di vivere. La misura è la sua misura, misurate sono le audacie, come di chi sa che tutto, per non essere consumato e divorato, va assaporato, sperimentato, sedimentato. Il suo sperimentalismo, che frastorna solo gli sprovveduti, è all’insegna, si sarebbe detto un tempo (un tempo lontanissimo: pochi mesi fa), della coerenza: ma oggi che questa parola non va di moda (guai ai coerenti) diremo da buoni avvocati consapevoli dell’umore della giuria, che è all’insegna della anti-consumo. Sperimentare non per consumare, ma per conoscere, o meglio riconoscere, il sempre uguale nel sempre diverso.

Andrè Verdet, dalla monografia edita nel 1972

(…) L’arte murale e decorativa è per Avenali il veicolo ideale con cui egli può esteriorizzare, con il massimo di libertà e di fantasia, la sua volontà di partecipazione a una società nuova dove il destino delle arti si dirige sempre più verso il collettivo. La vera arte murale dall’altra parte, propone preferenzialmente un’ immagine-oggetto in opposizione all’immagine-sentimento del quadro da cavalletto (il quale, non dimentihiamolo, si rivolge soprattutto al collezionista privato). A causa dell’ambiente in cui si situa e del valore pubblico che le è generalmente riservato, l’arte murale accaparra subito e mette in moto il meccanismo dello sguardo esigendone tutta l’attenzione prima ancora di sollecitare la sensibilità del cuore e dello spirito. Il suo procedimento, dunque, che postula il primato del fatto plastico è soprattutto visuale, e spesso spettacolare e attenua o nasconde, se addirittura non l’annulla, l’espressività affettiva inerente alla pittura.
Ora Marcello Avenali ha proprio bisogno della sua arte da cavalletto per affermare meglio la sua arte murale, le sue proposizioni monumentali, le sue strutture geometriche e permettersi libertà che altrimenti  terrebbe “sotto sorveglianza”. La prima arte fa insomma da supporto e da appoggio morale all’altra; inoltre continua a renderlo sempre più sensibile – quella sensibilità per le creature e le cose così congenita nella sua natura di artista – e egli evita una certa secchezza nella strutturazione delle forme e una certa rigidità automatica nei gesti. La produzione di Avenali scultore e decoratore di grandi spazi trova quindi la sua sicurezza psicologica e la sua fertilità materiale nella produzione di Avenali pittore.

Maurizio Fagiolo, presentazione della mostra alla galleria Aldina, 1973

(…) La fusione dei metalli, il mosaico, il graffito, l’encausto, la composizione con materiali vetrosi o la saldatura in ferro, la lavorazione nei due estremi del cristallo e dell’acciao: peintre-artisan, Avenali non ha paura dei materiali e delle tecniche, anche le meno “pittoriche”. Eppure lo sentirai sempre definirsi “pittore”, poiché di quei materiali gli interessa soprattutto l’impressione coloristica. Un pezzo di ferro di recupero o una stoffa vecchia possono valere come un albero, un ferro saldato gli interessa (pittoricamente) come un personaggio. Dei frammenti del mondo circostante, sceglie quelli artificiali o post-tecnici perché, come diceva il grande materialista Schwitters, “il mondo moderno è l’altra metà della natura, quella che nasce dall’uomo”.
I grandi collages. All’inizio erano le stoffe che l’artista-trovarobe accumula nel suo studio come testimonianza d’una vita morta, di una funzionalità sprecata. Poi (nulla si crea e nulla si distrugge) vengono assunte come soggetto d’un collage tre-di (“Amo le materie umili e povere – con la speranza di nobilitarle”). E infine, spedito all’arazziere di Asti o di Parigi, questo quadro viene trasformato in arazzo: si torna cioè all’inizio del processo. Un non quadro nato da frammenti di tessuto ritorna tessuto: colorato, brillante, eloquente, come una ribalta affollata di personaggi. O meglio come un teatrino di marionette che, miniaturisticamente raccontano vicende della fantasia e della favola. Dietro questi collages variopinti sembra di ritrovare quelle marionette che Avenali assortiva nel dopoguerra per favole da bambino-faber.
Questo lavoro che qualcuno disse (lo ricorda ironicamente Avenali) “di seconda mano”, non è una ricerca fine a se stessa ma dimostrativa, didattica. Con orgoglio, il pittore mostra le tecniche particolari escogitate per una vetrata moderna o per una decorazione funzionale. La destinazione ideale per questo lavoro non è la galleria d’arte e tanto meno la casa del collezionista: è semmai lo spazio urbano (ha lavorato con Michelucci, con i Passarelli, con Breuer) o meglio l’ambiente rinnovato di una scuola sperimentale. Non è colpa di un’artista se questa scuola ancora non c’è.

Ed Wingen, La forza vitale dell’immaginazione, Presentazione della monografia edita nel 1980

(…) Avenali non è mai diventato vittima dell’estetica nonostante la raffinatezza con la quale sa maneggiare ogni sorta di materiale. Al contrario di Braque, di cui è grande ammiratore, egli lascia che il sentimento corregga il cervello e lo tenga sottocontrollo.
Grazie al suo temperamento Avenali è giunto al fauvismo che occupa un posto unico nell’arte italiana contemporanea. A causa della mobilità barocca il fauvismo di Avenali sembra riallacciarsi al futurismo; c’è però una grande differenza tra la mobilità dei futuristi e quella che caratterizza la vitalità pittorica di Avenali. Inoltre l’artista non rifiuta la tradizione, anzi, ne trae ispirazione. La Roma antica è una realtà storica esistente, esattamente come la Roma di Fellini. Così quando si trova ad Amsterdam egli vede la città di Rembrandt nella luce soffusa dei nostri giorni. Il contrasto tra il presente ed il passato accentua i movimenti e dà loro inoltre un significato: perché le immagini evocate da Avenali non sono passeggere come nei film, ma hanno un valore duraturo: sono immagini di una realtà intensamente vissuta, dinamiche e ricche di colore che nascono sollecitate da un’esperienza sensuale e stimolano la nostra immaginazione.

Antonello Trombadori, dalla monografia edita nel 1980

(…) Ritorna la figura, un passo indietro: sono categorie che non appartengono a chi mai accettò l’opposizione del tutto artificiale ed erronea “astratto-figurativo”, come opposizione tra moderno e non moderno, e, soprattutto mai ne accettò l’irreversibile piano inclinato verso la palingenetica catarsi della morte dell’immagine realistica come preludio alla morte dell’arte. Io, ad esempio, non sono in grado di registrare se in Avenali c’è un “ritorno di figure” che possa in qualche modo appaiarsi allo sfrenato “figurativismo programmatico”, così è giusto chiamarlo, dei postavanguardisti. Mi pare piuttosto che ad Avenali vada riconosciuta una virtù che non fu propria di molti, appunto, negli anni nei quali la dittatura del gusto astratto stava preparando, tra l’altro, anche la rovina finanziaria di più di un inavveduto e calandri stico collezionista. Si tratta della virtù per cui se è vero che il disegno d’una forma antropomorfica e oggettiva, è pur sempre il disegno d’una figura o d’una immagine figurale o figurativa, ciò che in definitiva in un artista decide non è l’abbandono o il ritorno di questa o quella “figura” ma il modo, lo stile, la forza di comunicazione che non importa qual tipo di figure riescono ad attingere (…). Nella continuità del lavoro di Avenali se può esservi, come c’è, il limite d’una scelta che a volte è programmaticamente decorativa, v’è tuttavia un nutrimento espressivo delle immagini che risulta sempre libero da preconcetti, appunto, antropomorfici o non oggettivi. E qui sta la modernità di Avenali relativamente all’epoca nella quale egli si è formato e si è maturato.

Mariastella Margozzi, Avenali e Sironi, in Omaggio a Marcello Avenali, catalogo della mostra, 2001

Nel periodo in cui Avenali sta lavorando agli affreschi della chiesa di Sant’Eugenio, Sironi gli fa visita nello studio romano. Dell’episodio Avenali racconterà: “La mia pittura allora non era imperniata d’eleganza…rimase un po’ così..lui che era così violento..Poi invece fu lui che mi fece invitare ad un premio a Cortina e mi elogiò per l’opera che avevo mandato. Poi la mia pittura cambiò, perché lui mi insegnava tante cose della vita, ma soprattutto in fatto d’arte…”. I due artisti si erano conosciuti a Cortina d’Ampezzo l’anno prima, nel 1950. Avenali aveva atteso a lungo Sironi nella hall dell’albergo, tanto era ansioso di conoscere uno dei miti dell’arte della prima metà del secolo. Avenali ricorderà con precisione quel primo incontro e la battutaccia di Sironi. “Dunque lei sarebbe un pittore?”. Ma aggiungerà: “Il suono della sua voce era così gradevole e il desiderio di avvicinarmi a lui era così grande, che ignorai l’impertinente battuta”. La descrizione che Avenali fa di Sironi è toccante, considerato quanto questi fosse di carattere piuttosto scontroso: “Era un uomo profondamente giusto, e profondamente umano nel senso assoluto, universale, e questa rara condizione morale e spirituale non l’ha mai abbandonato per tutto l’arco della sua splendida e feconda opera di grande artista. Un uomo al quale era inutile fingere o nascondere, un uomo al quale bisognava stendere la mano e basta”. Da quel momento i due artisti non perdono i contatti; si scrivono lettere affettuose, si telefonano, qualche volta riescono a vedersi. Avenali era evidentemente lusingato da questo rapporto d’amicizia e forse anche sorpreso d’aver trovato tanta familiarità in un uomo che certo non ne concedeva volentieri. Inoltre l’ammirazione per l’opera di Sironi era talmente grande che Avenali anelava di catturarne anche solo parte della grandezza in ogni atteggiamento, in ogni suggerimento o scambio di idee. Che impulso Avenali ha potuto riceverne per la sua attività futura? Sicuramente ben due effetti hanno sortito da quell’incontro: il primo immediato e di ordine contenutistico relativo alla volontà di dedicarsi alla grande decorazione; il secondo di ordine stilistico, in tempi più lunghi e incidente sulla materia e sulla forma (…). Nel giugno del 1951 Avenali scrive a Sironi di aver portato a termine gli affreschi di Sant’Eugenio e descrive accorato al Maestro la fatica enorme che aveva dovuto sostenere: “…bello – bellissimo l’affresco Caro Maestro ma quanta disciplina impone !!! Quanta impotenza di realizzare subito, di vedere subito, lì sulla parete a punta del proprio pennello il risultato dei propri sforzi – chiaro e scuro ombra e luce o tutto ombra non è possibile saper distinguere; il muro rifiuta la luce con ostinazione, sul momento s’intende, che dopo o dopo è tutta un’altra cosa; il dipinto s’ingerma, s’inarca, si disunisce, si sfrangia, prima di assestarsi, snodarsi al fine sereno e pacato – allora, solo allora, possiedi la visione del tutto – ma quante fatiche Caro Maestro e che voglia di accelerare i tempi di vedere subito”. (…) Il sincero rapporto di amicizia e di stima con Sironi, che si snoda per tutti gli anni cinquanta fino alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1961, è sottolineato da altre lettere rintracciate negli archivi di rispettivi eredi. In una di esse, datata 8 giugno 1951, Sironi comunica ad Avenali che è riuscito a farlo inserire tra i partecipanti al Premio Parigi itinerante tra Cortina e Parigi. Sironi è amareggiato dal “clima di camorra” che si respira a Cortina e non nasconde la fatica che gli è costata far accettare Avenali. Questi decide di inviare alla rassegna quattro opere, due nature morte e due figure; tra esse Nudo del 1948 viene particolarmente apprezzato da Sironi. Non è in questo periodo, tuttavia, che nella pittura da cavalletto di Avenali, si registrano influssi sironiani; occorre rilevare la piena autonomia dell’artista rispetto al più anziano maestro e la piena consapevolezza di una propria originale evoluzione stilistica, che prende le mosse soprattutto dalle sue esperienze e in primo luogo da quella delle vetrate. E sarà, infatti, consapevolmente che Avenali, all’indomani della morte di Sironi, deciderà di rendergli omaggio con una serie di opere la cui produzione si protrarrà almeno fino al 1965, anno in cui vorrà presentarsi alla Quadriennale di Roma proprio con questo particolare aspetto della sua arte. (…) Queste tempere comunicano un Sironi che rivive nelle sue forme primordiali e solenni in Avenali e un Avenali che, in un tentativo – suggestivo, dai risultati sorprendenti e di grande qualità pittorica – di intenzionale recupero dell’arte di Sironi, ne verifica e ne testimonia lo spessore intellettuale e il valore estetico.
Episodio tra gli episodi, l’esperienza del cosiddetto “periodo grigio” di ascendenza sironiana si stratifica nella coscienza di Avenali, superata da nuovi simboli e da nuovi entusiasmi, da una libertà da schemi e modelli, ma da un rigore lavorativo che è forse l’eredità più vera consegnatagli da Sironi.